Libia: parlare chiaro

Di Rossana Rossanda, da il manifesto, 9 marzo 2011
Al “manifesto” non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare – e lo ha scritto – soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.
Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant’anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?
Ho proposto queste domande sul “manifesto” del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un’epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.
Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L’Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici – Gheddafi gioca ancora questa carta – poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l’appoggio alle medesime da parte dell’esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.
Ma la Libia non è né l’Egitto né la Tunisia. L’esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s’è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l’ottusità di Gheddafi, è responsabile se l’opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.
La sinistra non può molto. Il “manifesto”, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C’è un’area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto – non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall’altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.
Cremaschi: no alla guerra, sempre
Giorgio Cremaschi 21-03-2011
Non penso che si debba cambiare idea. Siamo stati contro la guerra in Iraq, che pure avveniva per spodestare un dittatore più feroce di Gheddafi, che aveva gasato il suo popolo. Siamo contro la guerra in Afghanistan che, tra l’altro, non ha alcuna via d’uscita. Non vedo la diversità delle argomentazioni oggi per sostenere l’intervento militare delle potenze occidentali in Libia.
Tra l’altro un vecchio principio, evidentemente dimenticato, delle Nazioni Unite stabiliva che eventuali interventi militari non potessero essere in alcun modo svolti da paesi coinvolti in occupazioni militari o precedenti conflitti nella stessa area. Francia, Gran Bretagna, Italia, sono le principali potenze coloniali del Nord Africa e un loro intervento è quanto di più stupido e controproducente ci possa essere a sostegno della causa democratica.
Se poi a questo si aggiunge la confusione dell’iniziativa, che è passata dalla “no fly zone” al bombardamento di tutti i siti militari, naturalmente con l’assicurazione che non vi sono danni ai civili, non si può non vedere la solita guerra umanitaria che si impantana nelle sue contraddizioni. E nella contraddizione principale e cioè che la guerra non può essere usata per affermare diritti e libertà. Lo è stato nel passato, è vero, e infatti continuamente si fa richiamo alle guerre antifasciste. Ma da allora il mondo è cambiato e non c’è stata una sola guerra in questi ultimi sessant’anni che non sia stata macchiata alla radice da interessi che con l’antifascismo e la democrazia non c’entrano nulla.
Ancora una volta, peraltro, scopriamo la catastrofe della sinistra italiana di fronte ai grandi eventi. Dopo mesi di mobilitazione contro Berlusconi, improvvisamente c’è l’unità nazionale per fare la guerra e, semmai, si criticano i dubbiosi e i recalcitranti nella maggioranza di Governo. Così tutta la dialettica politica che c’è in Europa pare oggi racchiusa tra le posizioni filotedesche della Lega e quelle filofrancesi e americane di La Russa e Frattini. Questa ennesima dimostrazione di inutilità della sinistra italiana porterà altri danni e, ancora una volta, mostrerà il vuoto di proposte e di iniziativa che c’è di fronte a Berlusconi.
Siamo stati e siamo senza reticenze e dubbi contro Gheddafi, e siamo contro i bombardamenti e la guerra. Dovrebbero essere questi due punti fermi. Il fatto che non lo siano, che si oscilli tra l’uno e l’altro, è l’ennesimo segno di una crisi della sinistra italiana che, nelle prove di fondo – vedi il Kossovo –, non è in grado di dire e fare nulla di diverso da tutti gli altri.
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